Cronaca di una morte porca
Nino Zaco è un coltivatore
sessantenne.
E’ alto, asciutto, la pelle
bruciata dal sole, la colonna vertebrale notevolmente storpiata dall’artrosi
e da antiche fatiche.
Ha trascorso trentasette anni
della propria vita in America.
Ora è tornato, con pochi denari
e molto meno capelli.
Quand’è partito, erano folti e
corvini; ora sono bianchi e radi.
Nino u Miricano è tornato da
solo.
Mogli (tre, si dice) e
altrettanti figli, li ha lasciati laggiù.
O non l’hanno voluto seguire.
Non si è mai saputo.
Così vive in solitudine a San
Martino, la stessa contrada di campagna che aveva lasciato da giovane, per
emigrare.
Nino perché non ti risposi? -
gli dicono i ragazzi e le ragazze della contrada, con lieve tono
canzonatorio.
Ed egli immancabilmente: - ma
chi faciti, babbiati?
Tri sbagghi Diu li pirduna pi
carità. Ma si ni fazzu quattru chi mi fa? Nel dubbio, lasciamo perdere.
Però Nino vive da solo per
l’anagrafe, non nella realtà. Tornando, si è reinserito subito, come se non
fosse mai stato assente per così lungo tempo.
Conosce tutti e da tutti è
conosciuto. Pochi sono i compaesani sopravvissuti che, tornando, ha
ritrovato. Ma ci sono i figli e i figli dei figli dei propri coetanei. Ed
ora, dopo appena cinque anni dal suo ritorno, è come se li avesse visti
nascere tutti: bambini, ragazzi ed adulti.
I quattro soldi, che ha portato
dall’America, li ha subito spesi per sistemare la vecchia casa ed il podere
paterni. Ora abita l’una, coltiva l’altro ed alleva animali. Qualche decina,
tra galline e oche, oltre un maiale e una capra.
Non è mai solo, è sempre in
compagnia di amici e parenti, vecchi e nuovi.
Parla e ascolta tutto il santo
giorno. Egli resta ammirato, se si discute delle cento diavolerie
tecnologiche che ha trovato, che va incontrando. Salvo i pesticidi e i
concimi chimici, che - al contrario - depreca. Resta indignato, se si
commentano i tanti cambiamenti del costume: brama di denaro e, nello stesso
tempo, spreco, turpiloquio, eccessiva libertà, scarso rispetto per gli
anziani, pessima educazione, assenza di pudore specie delle ragazze.
E’ un fedele cultore delle
“tradizioni di una volta”.
Per esempio il maiale, da
allevare in prossimità della casa, nutrendolo amorevolmente con mangime
genuino. Per ammazzarlo con le proprie mani, con altrettanta devozione,
sotto Natale.
Ed è proprio di questo che
voglio raccontare, del maiale di Nino u Miricanu.
Verso il dieci di dicembre,
Nino decise che era giunto il momento di macellarlo. Così, per la prima
domenica seguente, chiamò tre amici affinché lo aiutassero.
Gli uomini arrivarono di
mattina, il giorno stabilito.
Il cielo era completamente
coperto da una spessa coltre di nuvole grigie. Sembrava quasi sera, ma non
erano neppure le otto del mattino. Roberto, il più giovane dei quattro,
accese la luce elettrica. In cucina, la stanza più ampia della casa, ove
Nino li aveva accolti, si vedeva appena. Fuori, un vento freddo, abbastanza
impetuoso, sferzava i rami degli ulivi, le cui cime più alte si flettevano
fin quasi a spezzarsi. Le colline, che si vedevano fuori delle finestre
della stanza, erano color verde cupo.
Nino, seguito dagli uomini in
fila, uscì da casa e, percorso il breve sentiero che separava la casa stessa
dal porcile, vi entrò.
Legò il maiale ad una zampa con
una corda robusta e, con l’aiuto d’altri due uomini, cominciò a trascinarlo
fuori. Il maiale, quasi presagisse il suo destino, resisteva con tutte le
sue forze, lanciando terribili grugniti. Ma la sua resistenza fu vinta.
Tre uomini gli afferrarono le
zampe; un quarto uomo gli serrò il grugno dal quale, appena smorzati,
uscivano acutissimi e laceranti “gridi suini”, quasi stridenti urla umane.
Baratta, uno dei quattro, che -
per l’occasione – faceva da macellaio, armato di un lungo coltello, si chinò
sulla bestia. Il maiale si divincolava con tutte le sue forze, nel disperato
tentativo di sfuggire alla sua sorte. Ma fu inutile. Sei mani d’acciaio lo
tennero inchiodato su due tavole, posate apposta sul terreno.
Baratta affondò la lama nella
gola del maiale. La trachea e le grosse arterie dell’animale furono recise;
un vasto fiotto di sangue schizzò dalla ferita e tumultuosamente continuò a
sgorgare per alcuni istanti.
Nino accostò un pentolone per
raccogliere la “cascata” di quel rosso ruscello bestiale.
Il maiale emise ancora pochi
rantoli, via via sempre più fiochi, scalciò ancora due o tre volte, poi
morì.
Diventerai ottima salsiccia –
sentenziò Roberto, con allegria.
Ed anche salame – scherzò Nino.
E frittole no? – chiese Baratta
che, avendo ancora in mano il coltello insanguinato, non era uscito dal
ruolo e fingeva un tono truce e rude.
Bastiano, il saggio della
combriccola, con l’indice ammonitore in aria levato, si rivolse direttamente
al maiale morto. “Tu, fra tre mesi, sarai ancora buono”, tuonò con finto
sussiego, “mentre noi, quando arriverà la nostra ora, saremo sotterrati in
ventiquattro ore. Se no, il nostro fetore ammorberà l’aria”.
Una risata generale chiuse la
scena.