I colori della memoria
di Salvatore Di Fazio
Ci sono paesi dell’entroterra dei Nebrodi che,
secondo
le stagioni, organizzano a scopo turistico o didattico, sagre di vario tipo
per rievocare e mettere in vetrina – come se si trattasse di eventi
folkoristici – scene di vita campestre o di attività contadine che ormai
appartengono alla storia dell’antropologia o dell’etnostoria, perché
riconducibili a una Sicilia che non esiste più o che, di quella civiltà e di
quell’universo contadino che per millenni la improntarono e suggellarono,
custodisce solo frammenti, più o meno ibridi, più o meno contaminati,
contraffati, deformati.
Mi riferisco, per fare qualche esempio,
ai riti della mietitura del grano, dell’affastellamento dei covoni e del
fieno, alla battitura delle spighe dentro il cerchio dell’aia, alla
trebbiatura, al ventilamento della paglia per separala dal frumento e a
tutti quei lavori che una volta erano richiesti da questa attività.
E mi riferisco anche al lavoro dei buoi
aggiogati e a quello delle contadine e dei contadini intenti a compiere
tutte le operazioni connesse al calendario lunare.
Siamo in un’epoca pre-industriale e
pre-tecnologica, quando richiamiamo alla mente queste pagine del nostro
passato non troppo lontano. Siamo in quella fase della storia, appunto, che,
almeno in Sicilia, vigeva fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, o giù
di lì, nell’epoca insomma che precede l’avvento delle trebbiatrici, delle
falciatrici, dell’automatismo. Fu quella un’epoca che grandi artisti hanno
rappresentato in opere immortali, come il celebre quadro di Jean François
Millet, l’Angelus, conservato al Louvre di Parigi, in cui sono
rappresentati romanticamente un contadino e una contadina nell’atto di
recitare la preghiera della sera.
C’è, insomma, alle nostre spalle una
Sicilia agricola e contadina che non è quella delle odierne serre
plastificate o quella dei vivai ovattati e chiusi dentro capannoni di
metallo, quasi fossero il loro ventre materno; quella delle ceste di
materiali sintetici né quella dei tagliaerba o delle motoseghe o delle
vangatrici.
La Sicilia a cui facciamo riferimento –
e a cui si ispira la pittura di Nino Santomarco - è l’isola della fatica e
del sudore, delle spigolatrici e dei pastori, degli uomini in abiti di
velluto e delle donne in gonna e corpetto, della calura anche, da cui ci si
difendeva stringendo il grande fazzoletto rosso a scacchi intorno alla
fronte e al collo.
In breve, era la Sicilia degli umili,
della semplicità e della istintività, della stanchezza di vivere e di
lavorare, ma anche della sacralità del lavoro e della fatica. Era anche la
Sicilia dei prati rossi di papaveri, delle colline a grano, gialle come
l’oro, dei prati verdi di erba destinata a fieno, delle distese grigie dopo
l’aratura autunnale, dei tramonti incandescenti come le bocche dell’Etna in
eruzione, delle mandrie di cavalli e di buoi, dei branchi di pecore
addossate l’una all’altra o sparse e biancheggianti sui dirupi.
E’ proprio questa la Sicilia che Nino
Santomarco dipinge ormai da decenni, la Sicilia della memoria, la Sicilia
che è stata, la Sicilia che troviamo in una letteratura dalle tinte forti:
arcaica, severa, laboriosa, tenace, assolata, solitaria, contadina e
idillica.
La Sicilia di Santomarco è quella di
chi <<va cercando con pazienza e con amore quanto sopravvive, quanto ancora
è vero e ci viene da lontano>>.
La pittura di Nino Santomarco non
ricorre mai alla dissoluzione delle forme. Il suo intento figurativo è
quello di ritrarre paesaggi, ambienti, attività agricole, segni delle varie
stagioni, volti, corpi, gruppi, contestualizzati negli scenari naturalistici
in cui vivono, in cui insistono, in cui hanno il loro posto; e
simultaneamente è quello di interpretarli, catturando ciò che sta oltre
l’immagine, fondamentalmente la tessitura memoriale, l’anima, per così dire,
che vi circola dentro.
Quello di Santomarco è un ulteriore
viaggio nel vissuto della nostra terra: del vissuto paesaggistico (oggi
modificato dall’uomo), del vissuto artigianale e rurale (oggi pressoché
scomparso), del vissuto umano (oggi reso più tecnologico, più sofisticato,
più convenzionale, più meccanizzato), del vissuto religioso (oggi ridotto a
meri frammenti di una teatralità e di una spiritualità che hanno smarrito il
senso dell’oltre, le dimensioni della coralità e lo spirito della koiné,
ovvero della comunità e dell’aggregazione in nome di condivisi valori e di
analoghe radici culturali “ossificandosi” allo stesso modo in cui degli
oggetti, degli esseri viventi, dei prodotti umani il tempo asporta le parti
ornamentali e riduce il tutto a reperti pietrificati, a semplici fossili.
In questo cammino a ritroso, in questo
itinerario all’indietro, in questo percorso che, per molti aspetti, è
somigliante a quelle operazioni di restauro che sono finalizzate a ridare
smalto ai manufatti, ai fini della riappropriazione di ciò che una cosa era
o significava, il pittore va a cercare le impronte e le suggestioni da cui
trarre ispirazione per le sue creazioni: e quando parliamo di <<ciò che era
e di ciò che rappresentava>> parliamo di qualsiasi aspetto che concerne una
civiltà, una realtà altra, un mondo che non c’è più.
E poi, che cos’è la memoria? Memoria è
la potenzialità e la capacità di rivivere il passato e di percepirlo, di
sentirlo e amarlo con le stesse emozioni che hanno provato coloro che le
hanno vissute prima di noi.
Memoria è quel legame affettivo che ci
unisce emotivamente e indissolubilmente con gli oggetti che hanno fatto
parte della nostra esperienza, a cui siamo legati, a cui guarda la nostra
anima con vivo senso di trasporto.
Noi siamo impastati di memoria perché
quello che siamo, quello che sono i nostri desideri, le nostre pulsioni, i
nostri sentimenti, tutto quello che in noi appare naturale o istintivo ha
una sua genesi e un suo svolgimento.
Non nasce dal nulla, non è pura
biologia, ma é soprattutto cultura e memoria. Per cui diventa anche
narrazione, racconto, affabulazione.
La memoria storica ci permette così di
fermare il tempo. Ci consente di sopravvivere, come afferma giustamente, a
tale proposito, Vincenzo Consolo. Ci mette in condizione di perseguire il
sogno, i desideri, l’illusione, cioè di soffermarci nel tempo. Tutto questo
si oppone a ciò che è aleatorio, saltuario, passeggero, effimero.
La pittura diventa così una operazione
di ri-creazione, un tentativo (spesso ben riuscito) di trattenere il
ricordo e lottare affinché l’inesorabile oblio non cancelli tutto, non
riduca tutto a cenere o polvere.
Quando la memoria si trasforma in
pittura, cioè in arte, e ottempera al senso e allo scopo della riflessione
che nasce per lottare contro l’effimero, per aiutarci a trattenere più a
lungo le tracce del nostro passaggio in questo mondo, prende forma la
rappresentazione che cerca di far riaffiorare le immagini perdute.
Nino Santomarco,
dunque, con questa ennesima mostra si ripropone come pittore. E se il tema
dominante è quello della memoria della Sicilia che fu e della Sicilia che se
ne va, che va scomparendo, nuovi – e più esperti - sono i colori, le forme,
gli stessi contenuti le stesse testimonianze.
Ci sono perciò dipinti in cui il tema
della “raccolta” dei prodotti della terra o della natura si estrinseca in
larghe distese di campagne, in cui gli uomini, gli alberi o le messi vivono
in sinergia e in armonia. Ne vediamo altri in cui la chiesa, le rocce, le
piante, il lavoro umano, intento a connotare antropicamente il paesaggio
rurale, sono come avvolti in un fitto velo di azzurro per far esaltare il
ventaglio di sfumature che si slarga sulla parte mediana o centrale del
quadro.
Ce ne sono altri in cui il paesaggio si
divide in due o più piani coloristicamente contrapposti, ma opportunamente
integrati, quasi a mettere in risalto – nella totale assenza di elementi
arborei – l’isola dei colori, l’isola della luce, l’isola della bellezza
nella sua affascinante solitudine.
Ne ammiriamo altri ancora in cui il
paesaggio sconfina, deborda e si confonde o si immerge nel cielo che lo
sovrasta. Davanti a questi sembra di sentire gli odori: del fieno,
della terra, dei fiori di campo.
Ci sono poi le marine, numerose e
varie, nella loro sconfinata grandezza o nei loro aspetti parziali, nei loro
dettagli, nelle loro rivelazioni ed esibizioni infinite, autunnali o estive.
Oppure nella loro rasserenante immobilità o nelle loro tempestose irruenze e
trasgressioni naturali: marine ora dominate dall’azzurro ora dal bianco ora
dal colore indefinibile che quell’ora, quel punto di osservazione, quell’attimo
particolare ha permesso di catturare.
C’è infine una Sicilia dalla
religiosità arcaica, medievale o barocca, in cui l’anima della gente
s’incarna nella figura del santo Patrono o del Cristo crocifisso e quasi
trasvolante sulla folla, sospeso fra cielo e terra; e c’è una Sicilia delle
metafore, una Sicilia teatro del mondo, una Sicilia impressionisticamente
raffigurata nell’abbagliante rosso dei suoi papaveri, i fiori cari e sacri a
Démetra perché nascono e crescono tra le spighe di cui la dea era
protettrice.
Il cammino lungo la multiforme isola
dei vulcani, dei monti aspri e lunari, delle acque e dei boschi, dei cavalli
e degli ulivi, delle albe e dei tramonti, ha una singolarità: quella
di essere terra di affascinanti immagini fisiche e specchio riflettente
dello spirito più profondo che essa ha desunto dalla mitologia, dalle tante
dominazioni e soprattutto dalla molteplicità di carattere della sua gente.
Acquedolci, 6 marzo 2011